Sono le quattro e mezza di mattina e sto risalendo con alcuni compagni di viaggio la Via Dolorosa per andare a partecipare alla messa al Santo Sepolcro, i negozi del suk sono chiusi e regna il silenzio. Manca poco al rientro e oggi è l’ultimo giorno nella Gerusalemme vecchia. Penso agli ultimi mesi passati preparando e organizzando questo pellegrinaggio nel tempo di Natale, dal 27 dicembre al 4 gennaio. Torno fino alle origini e mi viene naturale pensare al santo padre e ringraziarlo per il dono che ci ha fatto: l’Anno della fede. Penso alla prontezza dell’Azione Cattolica diocesana che leggendo le indicazioni pastorali con l’invito a «favorire anche i pellegrinaggi in Terra Santa, luogo che per primo ha visto la presenza di Gesù, il salvatore, e di Maria, sua madre» ha pensato a questo viaggio e lo ha pensato per i giovani della Diocesi, tutti. Penso agli incontri fatti per prepararsi alla partenza con i ragazzi e con don Fabio Gennai, che ci sta guidando con le sue meditazioni dall’inizio del pellegrinaggio. Siamo partiti in 24, scorro nella mia testa i volti e le storie: con qualcuno ci conosciamo da anni grazie all’Azione Cattolica, altri sono dell’Agesci e di Comunione e Liberazione, c’è mio fratello con sua moglie, poi ci sono alcuni che grazie ad amici, pur non facendo da anni un cammino di fede o partecipando saltuariamente, hanno deciso di accogliere l’invito a venire in Terra Santa.
Entro in chiesa: a quest’ora i pellegrini sono pochi e il silenzio regna anche qui, nella penombra mi dirigo al Santo Sepolcro: la messa sarà celebrata proprio lì, su quella tomba vuota. Lo so che quella tomba è vuota, sono qui perché credo in un Dio che si è fatto uomo e ha vinto la morte risorgendo, ma toccare con mano è un’altra cosa. Ripenso al passo evangelico e alle parole di Gesù: «Io sono via, verità e vita».
Finisce la messa e salgo al Calvario: ancora una volta presento a Dio in quel posto tutte le intenzioni delle persone che mi hanno chiesto di essere ricordate nella preghiera. Sto in silenzio, guardo le persone davanti a me che si piegano in ginocchio per toccare, sotto l’altare, la pietra su cui Cristo è stato crocifisso; è il mio turno, mi inginocchio e tocco la terra, è liscia, nella mia mente i milioni di pellegrini che ogni giorno raggiungono questo posto mossi dalla fede e portano qui le loro gioie, le loro speranze, il loro dolore. Toccare è un’espressione della fede che non mi è mai appartenuta, ma qui in Terra Santa diventa per me un atto di fede: tu, Signore della vita, qui hai condiviso la vicenda umana, qui in questa terra sei nato, vissuto, hai sofferto, sei stato ucciso, qui hai cambiato la storia, anche la mia storia, risorgendo.
Esco dalla Chiesa e il sole comincia timidamente a illuminare il cielo. Nell’aria il profumo delle spezie e del pane. Penso a questo paese così diviso e ferito, ripenso all’invito che ci ha fatto il padre gesuita David Neuhaus, vicario patriarcale per i cristiani di espressione ebraica, a “custodire la lingua”, cioè a tornare a casa e vivere da veri discepoli di Cristo, evitando facili semplificazioni della questione israelo-palestinese, cercando di capire le ferite di tutti e usando per ciascuno parole di misericordia e di amore. Nelle orecchie ho anche le parole di monsignor Marcuzzo, vicario patriarcale per Israele, che abbiamo incontrato a Nazareth: «Dovete essere grati ai cristiani di Terra Santa, che oltre a continuare a mantenere viva la fede nella terra di Gesù sono anche i diretti discendenti dei primi discepoli, grazie ai loro antenati l’annuncio è arrivato nelle vostre terre e avete potuto incontrare Cristo… oggi è come foste tornati a casa».
Ringrazio perché in Terra Santa non ho visitato dei luoghi, ma ho incontrato le persone, perché ho visto come il Signore sappia toccare il cuore anche dei più scettici, perché qui la parola di Dio diventa in 3D e perché non si torna a casa come prima.
Il link all’articolo sul sito del Nuovo Diario Messeggero