I cattolici e la politica: tra l’incubo e il sogno
Una riflessione di Luigi Alici*
Troppo spesso il rapporto cattolici/politica è trattato in modo semplicistico, senza nessuna profondità storica e contestuale. Troppi gli errori che si sono accumulati negli ultimi anni, ma ora si può ripartire da un’etica condivisa e regole che diano il senso del cambiamento. Una su tutte: il limite di mandati in Parlamento. Una riflessione di Luigi Alici*
La domanda intorno al rapporto tra fede e politica accompagna l’intera tradizione cristiana e solo un deficit di senso storico può autorizzare risposte univoche e semplificate, quasi sempre oscillanti fra nostalgie anacronistiche di regimi di cristianità perduta, al limite del fondamentalismo, e forme di indifferenza e disimpegno sociale, al limite del relativismo.
È un grave errore separare l’aspetto strutturale e quello congiunturale del problema; se è vero che il “caso italiano” si colloca in una particolare congiuntura storica, che ci chiama a cogliere gli aspetti “nuovi” del problema, è altrettanto vero che non possiamo dimenticarne i fattori più strutturali. Quando, nel 1995, Giovani Paolo II pronunciò al convegno ecclesiale di Palermo un discorso in cui, fra l’altro, riconosceva in modo esplicito la fine di una stagione d’impegno politico dei cattolici nell’ambito della Democrazia Cristiana, dalla platea si levò un applauso fragoroso, dal sapore quasi liberatorio e dal tenore ambivalente: per un verso ci si scrollava di dosso un’eredità ormai ingombrante, per altro verso si proiettava erroneamente in quelle parole il desiderio – più o meno inconscio – di una sorta di affrancamento non solo dal passato, ma anche dal futuro.
Questa, si può dire, è stata la madre di tutti gli equivoci: il crollo della Democrazia Cristiana ha coinciso con il passaggio a una forma di bipolarismo, che si è rivelato poco adatto alla complessa stratificazione della cultura politica italiana; nello stesso tempo, mentre s’attenuava – anche per una forma di ingeneroso discredito, in qualche caso alimentato anche a livello intraecclesiale – un filone di elaborazione e testimonianza del laicato cattolico (basterebbe fare i nomi di La Pira, Lazzati, Bachelet…), una forte domanda di coinvolgimento dei laici in ambito strettamente pastorale ha alterato un equilibrio costruito a fatica nel periodo compreso fra l’unità d’Italia e il Concilio. Questi due fattori (accanto a molti altri) meritano un’attenzione specifica e distinta.
Anzitutto il bipolarismo ha conosciuto in Italia un’interpretazione apocalittica e manichea, trasformandosi in uno scontro tra le forze del bene e quelle male, neutralizzando quello spazio del bene comune che precede e rende possibile il formarsi di schieramenti diversi. La delegittimazione strisciante dell’avversario, il diffondersi di un atomismo sociale dilagante, il venir meno del senso storico, il ridimensionamento della stessa Carta costituzionale sono state variabili improprie del bipolarismo; ad esse s’è aggiunto il processo di dispersione centrifuga di quello che restava della Democrazia cristiana, in cui persino l’appello all’identità cattolica è stato piegato alla logica perversa del bipolarismo. Il risultato è davanti agli occhi di tutti: una grave confusione fra bipolarismo politico e bipolarismo ecclesiale, mentre fratelli nella fede militanti in opposti schieramenti si trattano come se oltre l’antitesi politica non ci fosse qualcosa di infinitamente più importante (nel senso letterale del termine) che deve accomunarli.
In secondo luogo, l’assorbimento generoso – e in larga misura doveroso – del laicato a livello di ministerialità intraecclesiali, in coincidenza con un calo vistoso del clero, ha aggravato il disimpegno verso la politica, con esiti paradossali e imbarazzanti: pastori che s’avvicinano troppo alla politica attiva, trattando a tu per tu con il potere, e laici che al contrario s’allontanano troppo da essa, considerandola una sfera irrimediabilmente contaminata e impura, che non merita rispetto e che si può riscattare spremendone i massimi benefici possibili “a fin di bene”. L’ammonimento di Benedetto XVI al Convegno ecclesiale di Verona appare troppo spesso dimenticato: «La Chiesa… non è e non intende essere un agente politico… Il compito immediato di agire in ambito politico per costruire un giusto ordine nella società non è dunque della Chiesa come tale, ma dei fedeli laici, che operano come cittadini sotto la propria responsabilità».
Al punto in cui siamo, cercando di coniugare una doverosa ed equilibrata fedeltà ad alcuni principi di fondo circa il rapporto tra fede e politica con l’urgenza dell’attuale critica congiuntura italiana, vorrei contribuire a questo dibattito con alcune provocazioni:
1) in un sistema bipolare, a ogni persona politicamente impegnata si richiede una doppia articolazione del proprio impegno, ordinata secondo una giusta scala gerarchica: in primo luogo nella cura e promozione attiva dei valori comuni sui quali si regge la convivenza e che trovano il loro fondamento normativo, a livello di legge naturale e positiva, rispettivamente nell’etica e nella Carta costituzionale; in secondo luogo nell’adesione leale a uno schieramento, motivata con una proposta politica coerente e costruttiva, difesa in nome di una corretta competizione democratica, che in nessun caso può prevedere la delegittimazione degli avversari;
2) fedele all’invito di Maritain (e prima ancora di Tommaso) a distinguere senza separare, il laico cristiano che s’impegna in politica ha in un certo senso una doppia responsabilità: nei confronti del primato del bene comune, in cui si potrebbe riassumere il senso stesso della politica e la sua giustificazione ultima; nei confronti della propria fede, che non dev’essere nascosta, ma nemmeno esibita e usata come “corsia preferenziale” per guadagnare un consenso facile e non meritato. Ritenere che il battesimo comporti uno “sconto” nella competenza o nella moralità del politico è un grave atto di irresponsabilità, che va denunciato con carità nei confronti delle persone e con chiarezza nei confronti dei comportamenti;
3) se si può parlare di “valore aggiunto” del laico battezzato impegnato attivamente in politica, tale valore nasce essenzialmente dal primato della carità sulla giustizia, che – soprattutto oggi – deve manifestarsi in uno stile e in un metodo disposti ad accettare qualche responsabilità in più (e non in meno):
a) la responsabilità della verità: nell’epoca del populismo e dell’antipolitica, l’uomo politico non può incarnare un modello paternalistico (ormai tramontato anche nel rapporto medico-paziente!), fondato su una delega in bianco e su un sistematico nascondimento della verità (meno che mai in periodo elettorale!);
b) la responsabilità del rispetto delle persone: dinanzi allo spettacolo indecente di una politica ispirata al modello della sopraffazione esibita e persino teorizzata (mors tua vita mea), spetta a ogni uomo politico, a qualsiasi schieramento appartenga, perseguire un comportamento ispirato al rispetto di tutti e a una esemplare regola di giustizia (vita mea vita tua). Al cristiano si chiede ovviamente molto di più: di non comportarsi come chi dice a ogni pie’ sospinto: “Signore, Signore” (Mt 7,21), né di fare proprie le parole del fariseo (“O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini…”) (Lc 18,11); al contrario, si chiede di testimoniare anche nella politica l’eccedenza del vangelo, che oltrepassa l’ordine della giustizia – dopo averlo riconosciuto – con il dono della carità (mors mea vita tua). Come chiedere oggi tale eroismo di “secondo livello” a chi non sembra nemmeno in grado di raggiungere il primo?
c) la responsabilità di una corretta rappresentanza democratica: nell’epoca in cui il professionismo della politica sembra aver raggiunto limiti semplicemente indecenti, perché non farsi carico di un’iniziativa esemplare, di un segnale forte, che possa esprimersi in un vincolo di mandato (ad esempio, che non superi le due legislature) dichiarato nel momento in cui ci si presenta agli elettori? Questa scelta è possibile ad almeno due condizioni: anzitutto, che l’impegno attivo in parlamento o al governo (non certo nel partito) rappresenti una parentesi breve e intensa rispetto a una professione o un mestiere di cui si sia potuto apprezzare la competenza e l’onestà e che si possa riabbracciare appena possibile; in secondo luogo, che il progetto per il quale “si scende” (anzi, “si sale”) in politica abbia una profilo comunitario e non individuale, e possa quindi essere portato avanti grazie a un avvicendamento che riduca i pericoli di personalizzazione impropria e di attenuazione (se non di vero e proprio arretramento) dell’originaria spinta ideale.
Non sono così ingenuo da non immaginare il sorriso di compatimento che qualche politico di lungo corso potrebbe riservare a questa proposta; nel migliore dei casi, potrebbe archiviarla come “un bel sogno”. Ma forse oggi ci vuole proprio un bel sogno per risvegliarci da quest’orribile incubo.
*Il contributo è tratto da http://www.filosofionline.com