Se fosse stato un film di Hollywood, alla fine l’eroe di turno avrebbe liberato (ovviamente da solo) Capitol Hill e scoperto che i mandanti erano nemici esterni alla Nazione… Solo che ciò che è accaduto ieri a Washington ha sancito definitivamente che la realtà supera la fantasia.
Non c’erano nemici, erano tutti americani, sebbene un senatore statunitense abbia definito unamerican l’isteria di quella massa di persone (sempre che sia possibile definire solo isteria un raduno chiamato, voluto e organizzato nello stesso giorno della proclamazione del presidente eletto). E anche l’eroe solitario qui non c’è. C’è invece un sistema degradato da menzogne e slogan, tutte vuote parole che, inneggiando alla pancia di malessere e ingiustizia sociali, creano le condizioni per l’abdicazione della ragione.
Shame si leggeva su molti messaggi ieri sera sui social: non solo vergogna, anche disonore, onta, infamia.
La violenza che impedisce il regolare svolgimento del processo democratico però non è esplosa inaspettata, è figlia dell’escalation di una politica basata sui proclami, sulla contrapposizione tra “noi” e “loro”, tra chi vince e chi perde. La democrazia non si fa nella contrapposizione di chi vince e di chi perde: chi vince ha la responsabilità di percorrere la strada proposta, chi perde ha la responsabilità di monitorare che su quella strada, nessuno resti indietro.
Al numero 157 della Fratelli Tutti leggiamo: “La pretesa di porre il populismo come chiave di lettura della realtà sociale contiene un altro punto debole: il fatto che ignora la legittimità della nozione di popolo. Il tentativo di far sparire dal linguaggio tale categoria potrebbe portare a eliminare la parola stessa “democrazia” (“governo del popolo”). Ciò nonostante, per affermare che la società è più della mera somma degli individui, è necessario il termine “popolo”.
E ancora “Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi: è un processo lento, difficile… verso un progetto comune. Ci sono leader popolari capaci di interpretare il sentire di un popolo, la sua dinamica culturale e le grandi tendenze di una società. Il servizio che prestano, aggregando e guidando, può essere la base per un progetto duraturo di trasformazione e di crescita, che implica anche la capacità di cedere il posto ad altri nella ricerca del bene comune. Ma esso degenera in insano populismo quando si muta nell’abilità di qualcuno di attrarre consenso allo scopo di strumentalizzare politicamente la cultura del popolo, sotto qualunque segno ideologico, al servizio del proprio progetto personale e della propria permanenza al potere. Altre volte mira ad accumulare popolarità fomentando le inclinazioni più basse ed egoistiche di alcuni settori della popolazione. Ciò si aggrava quando diventa, in forme grossolane o sottili, un assoggettamento delle istituzioni e della legalità” (FT 158, 159).
Questa deriva non è una prerogativa statunitense: è diffusa in tutte le democrazie, anche italiana, perché la democrazia è forte e fragile al contempo. Recuperare la “categoria popolo” è uno sforzo collettivo che dobbiamo sempre ri-attuare, in un approfondimento continuo che, beneficiando dell’inclusione di altri, porta ad un’evoluzione dinamica, fedele alla realtà (cfr. FT 161). Ecco perché è urgente rimettersi con umiltà a svolgere un lavoro di educazione e cultura politica di base, che sappia creare attitudine alla sintesi senza contrapposizioni o scelte tra chi viene prima e chi dopo, e soprattutto pensiero alto che sappia distinguere uno slogan, un concetto divisivo, da un ragionamento inclusivo e da una scelta.
Speriamo che nei libri di storia la giornata di ieri non venga citata come “marcia su Washington”: “la democrazia è la vivente dimostrazione che la conflittualità degli interessi non esclude la loro composizione, né la loro convivenza: la democrazia è conquista e vittoria quotidiana contro la sopraffazione, è difesa dei diritti faticosamente conquistati. Questa non è la via più lunga per una maggiore giustizia nella società: è l’unica via”, (Vittorio Bachelet, 1979 – cfr. F. Mastropaolo, Il contributo politico e culturale di V. Bachelet al CSM).